venerdì 26 marzo 2010
1998 – José Saramago – Portogallo
Incipit di “Cecità”.
Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell’asfalto, non c’è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell’aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c’è che dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città, e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.
Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell’asfalto, non c’è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell’aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c’è che dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città, e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.
1995 – Seamus Heaney – Nord Irlanda
Un artista (poesie scelte)
Mi piace, l’idea della sua rabbia.
La sua ostinazione contro la roccia, la sua
coercizione della sostanza dalle mele verdi.
Il suo modo di fare il cane che abbaia
All’immagine di se stesso che abbaia.
E l’odio per l’abbraccio del suo lavoro
come se fosse
l’unica cosa degna di lavoro –
la volgarità di aspettarsi sempre
gratitudine o ammirazione, che poi
sarebbe stato come rubargli qualcosa.
Il modo in cui la sua fermezza d’animo
teneva e si rafforzava,
perché faceva quello che sapeva.
La sua fronte come una boule lanciata
attraverso lo spazio non dipinto
dietro la mela e dietro la montagna.
Mi piace, l’idea della sua rabbia.
La sua ostinazione contro la roccia, la sua
coercizione della sostanza dalle mele verdi.
Il suo modo di fare il cane che abbaia
All’immagine di se stesso che abbaia.
E l’odio per l’abbraccio del suo lavoro
come se fosse
l’unica cosa degna di lavoro –
la volgarità di aspettarsi sempre
gratitudine o ammirazione, che poi
sarebbe stato come rubargli qualcosa.
Il modo in cui la sua fermezza d’animo
teneva e si rafforzava,
perché faceva quello che sapeva.
La sua fronte come una boule lanciata
attraverso lo spazio non dipinto
dietro la mela e dietro la montagna.
1994 – Oe Kenzaburo – Giappone
Incipit di “L’animale d’allevamento”
Mio fratello e io rimestavamo con pezzi di legno la superficie morbida, odorante di grasso e di cenere del forno crematorio provvisorio, costituito da una buca poco profonda scavata nel sottobosco del fondovalle. Il tramonto e la nebbia – una nebbia fredda come l’acqua di fonte che sgorgava nel bosco – avevano già avvolto il fondovalle, e sul piccolo villaggio che noi abitavamo, raccolto intorno alla strada sassosa sul lato della montagna rivolto verso la valle, calava una luce violetta. Io raddrizzai la schiena curva e distesi l’intera cavità orale in uno sbadiglio privo di forza. Anche mio fratello si alzò facendo un piccolo sbadiglio e mi sorrise.
Mio fratello e io rimestavamo con pezzi di legno la superficie morbida, odorante di grasso e di cenere del forno crematorio provvisorio, costituito da una buca poco profonda scavata nel sottobosco del fondovalle. Il tramonto e la nebbia – una nebbia fredda come l’acqua di fonte che sgorgava nel bosco – avevano già avvolto il fondovalle, e sul piccolo villaggio che noi abitavamo, raccolto intorno alla strada sassosa sul lato della montagna rivolto verso la valle, calava una luce violetta. Io raddrizzai la schiena curva e distesi l’intera cavità orale in uno sbadiglio privo di forza. Anche mio fratello si alzò facendo un piccolo sbadiglio e mi sorrise.
1993 – Toni Morrison – USA
1992 – Derek Walcott – Saint Lucia
Il pugno
Il pugno stretto intorno al mio cuore
si allenta un poco, e io respiro ansioso
luce; ma già preme
di nuovo. Quando mai non ho amato
la pena d’amore? Ma questa si è spinta
oltre l’amore fino alla mania. Questa
ha la forte stretta del demente, questa
si aggrappa alla cornice della non-ragione, prima
di sprofondare urlando nell’abisso.
Tieni duro allora, cuore. Così almeno vivi.
Il pugno stretto intorno al mio cuore
si allenta un poco, e io respiro ansioso
luce; ma già preme
di nuovo. Quando mai non ho amato
la pena d’amore? Ma questa si è spinta
oltre l’amore fino alla mania. Questa
ha la forte stretta del demente, questa
si aggrappa alla cornice della non-ragione, prima
di sprofondare urlando nell’abisso.
Tieni duro allora, cuore. Così almeno vivi.
1991 – Nadine Gordimer – Sud Africa
Incipit de “Il mondo tardoborghese”
Aprii il telegramma e dissi: “È morto”. Sollevando lo sguardo verso quello di Graham Mill compresi che sapeva di chi stavo parlando, prima ancora che potessi dirlo. Aveva incontrato alcune volte Max, il mio primo marito, e naturalmente sapeva tutto di lui: mi aveva aiutata a vederlo quando era in carcere.
Aprii il telegramma e dissi: “È morto”. Sollevando lo sguardo verso quello di Graham Mill compresi che sapeva di chi stavo parlando, prima ancora che potessi dirlo. Aveva incontrato alcune volte Max, il mio primo marito, e naturalmente sapeva tutto di lui: mi aveva aiutata a vederlo quando era in carcere.
1990 – Octavio Paz – Messico
Incipit de “Il labirinto della solitudine”
A tutti noi, in un dato momento, la nostra esistenza si è rivelata come qualcosa di particolare, inalienabile e stupendo. Quasi sempre questa rivelazione avviene durante l’adolescenza. La scoperta di noi stessi si manifesta come un saperci soli; tra il mondo e noi s’innalza un’impalpabile, trasparente muraglia: quella della nostra coscienza.
A tutti noi, in un dato momento, la nostra esistenza si è rivelata come qualcosa di particolare, inalienabile e stupendo. Quasi sempre questa rivelazione avviene durante l’adolescenza. La scoperta di noi stessi si manifesta come un saperci soli; tra il mondo e noi s’innalza un’impalpabile, trasparente muraglia: quella della nostra coscienza.
1989 – Camilo José Cela – Spagna
Incipit da “L’alveare”
- Non facciamo confusione, ormai sono stufa di dirlo, questa è la sola cosa che importi.
Dona Rosa va e viene fra i tavoli del caffè, urtando i clienti con il suo enorme sedere. Dona Rosa dice spesso “cacchio” e “siamo fottuti”. Per lei, il mondo è il suo caffè, e, attorno al suo caffè, tutto il resto. Qualcuno dice che a dona Rosa luccicano gli occhietti quando viene la primavera e le ragazze cominciano ad andare in giro con le maniche corte. Io credo che siano tutte chiacchiere; dona Rosa non avrebbe mollato una buona moneta d’argento per nulla al mondo. Né con la primavera, né senza.
- Non facciamo confusione, ormai sono stufa di dirlo, questa è la sola cosa che importi.
Dona Rosa va e viene fra i tavoli del caffè, urtando i clienti con il suo enorme sedere. Dona Rosa dice spesso “cacchio” e “siamo fottuti”. Per lei, il mondo è il suo caffè, e, attorno al suo caffè, tutto il resto. Qualcuno dice che a dona Rosa luccicano gli occhietti quando viene la primavera e le ragazze cominciano ad andare in giro con le maniche corte. Io credo che siano tutte chiacchiere; dona Rosa non avrebbe mollato una buona moneta d’argento per nulla al mondo. Né con la primavera, né senza.
1988 – Nagib Mahfuz – Egitto
Incipit da “Il ladro e i cani”
Di nuovo egli respira aria di libertà; ma l’atmosfera è soffocante, come impregnata di polvere, e il caldo insopportabile. Ritrova l’abito blu e le scarpe da ginnastica, ma non v’è nessun altro ad aspettarlo. Ecco riapparire il mondo, ecco dischiudersi il grande portone del carcere su segreti senza speranza.
Di nuovo egli respira aria di libertà; ma l’atmosfera è soffocante, come impregnata di polvere, e il caldo insopportabile. Ritrova l’abito blu e le scarpe da ginnastica, ma non v’è nessun altro ad aspettarlo. Ecco riapparire il mondo, ecco dischiudersi il grande portone del carcere su segreti senza speranza.
1987 – Iosif Brodskij – Russia
Versi tratti da “Poesie 1972-85”
Il Nord trilla il metallo, ma risparmia il vetro.
Ed insegna alla gola a dire “fammi entrare”.
Il freddo mi ha educato e mi ha messo una penna
fra le dita, per riscaldarle strette a pugno.
Gelando, vedo il sole che tramonta
dietro al mare, e non c’è nessuno intorno.
Non so se il tacco scivola sul ghiaccio
o se è la terra stessa che si inarca.
sotto il tacco. Dentro la gola che contiene
risa o discorso o tè caldo, io
sento sempre più chiara risuonare la neve
e il solo punto nero, un Amundsen, è “addio”.
Il Nord trilla il metallo, ma risparmia il vetro.
Ed insegna alla gola a dire “fammi entrare”.
Il freddo mi ha educato e mi ha messo una penna
fra le dita, per riscaldarle strette a pugno.
Gelando, vedo il sole che tramonta
dietro al mare, e non c’è nessuno intorno.
Non so se il tacco scivola sul ghiaccio
o se è la terra stessa che si inarca.
sotto il tacco. Dentro la gola che contiene
risa o discorso o tè caldo, io
sento sempre più chiara risuonare la neve
e il solo punto nero, un Amundsen, è “addio”.
1986 – Wole Soyinka – Nigeria
Incipit de “Gli interpreti”
“Metallo su cemento urta i miei lobi ubriachi”. Questo era Sagoe, che borbottava ficcandosi le dita nelle orecchie contro il folle scricchiolio di tavole metalliche. Poi quasi si ruppe il collo quando saltò su Dehinwa e la testa di Sagoe ciondolò nel vuoto dove era stato il grembo di lei. le braccia di Bandele non finivano mai di stupire. Semiestese abbracciavano tavolo e sedia, li ficcavano a fondo nel muro maestro mentre danzatori saltavano lunghe lingue di camaleonte dello scoppio di nuvole e il vento vi balzava sopra, visibilmente malevolo. Dopo un momento restò solo la banda.
“Metallo su cemento urta i miei lobi ubriachi”. Questo era Sagoe, che borbottava ficcandosi le dita nelle orecchie contro il folle scricchiolio di tavole metalliche. Poi quasi si ruppe il collo quando saltò su Dehinwa e la testa di Sagoe ciondolò nel vuoto dove era stato il grembo di lei. le braccia di Bandele non finivano mai di stupire. Semiestese abbracciavano tavolo e sedia, li ficcavano a fondo nel muro maestro mentre danzatori saltavano lunghe lingue di camaleonte dello scoppio di nuvole e il vento vi balzava sopra, visibilmente malevolo. Dopo un momento restò solo la banda.
1985 – Claude Simon – Francia
Incipit de “La strada delle Fiandre”
Aveva una lettera in mano, alzò gli occhi mi guardò poi di nuovo la lettera poi di nuovo me, potevo vedere dietro di lui andare e venire passare le macchie rosso mogano ocra dei cavalli condotti all’abbeveratoio, c’era tanto fango che ci si affondava dentro fino alle caviglie ma mi ricordo che nella notte d’improvviso aveva gelato e Wack entrò nella camera portando il caffè dicendo I cani si sono mangiati il fango, io non avevo mai sentito quell’espressione, mi sembrava di vedere i cani, delle creature infernali mitiche le fauci dagli orli rosa i denti freddi e bianchi da lupo biascicare il fango nero nelle tenebre della notte, un ricordo forse, i cani divorare sgombrare far piazza pulita: ora era grigio e noi nel corrervi sopra ci torcevamo i piedi, in ritardo come sempre per l’appello mattutino, rischiando di slogarci le caviglie nelle profonde impronte lasciate dagli zoccoli e dure adesso come la pietra, e dopo un istante disse Mi ha scritto vostra madre.
Aveva una lettera in mano, alzò gli occhi mi guardò poi di nuovo la lettera poi di nuovo me, potevo vedere dietro di lui andare e venire passare le macchie rosso mogano ocra dei cavalli condotti all’abbeveratoio, c’era tanto fango che ci si affondava dentro fino alle caviglie ma mi ricordo che nella notte d’improvviso aveva gelato e Wack entrò nella camera portando il caffè dicendo I cani si sono mangiati il fango, io non avevo mai sentito quell’espressione, mi sembrava di vedere i cani, delle creature infernali mitiche le fauci dagli orli rosa i denti freddi e bianchi da lupo biascicare il fango nero nelle tenebre della notte, un ricordo forse, i cani divorare sgombrare far piazza pulita: ora era grigio e noi nel corrervi sopra ci torcevamo i piedi, in ritardo come sempre per l’appello mattutino, rischiando di slogarci le caviglie nelle profonde impronte lasciate dagli zoccoli e dure adesso come la pietra, e dopo un istante disse Mi ha scritto vostra madre.
1984 Jaroslav Seifert – Repubblica Cecoslovacca
Incipit di “Tutte le bellezze del mondo”
Nel silenzio della memoria, in particolare se chiudo forte gli occhi, ogni volta che ne ho voglia vedo i volti delle tante persone belle incontrate nella mia vita, e con molte delle quali ho avuto rapporti di profonda amicizia, cosicché i rapporti si avvicendano, uno più bello dell’altro. Ed ho la sensazione di avere conversato con loro il giorno avanti. Sento ancora il calore delle loro mani tese.
Nel silenzio della memoria, in particolare se chiudo forte gli occhi, ogni volta che ne ho voglia vedo i volti delle tante persone belle incontrate nella mia vita, e con molte delle quali ho avuto rapporti di profonda amicizia, cosicché i rapporti si avvicendano, uno più bello dell’altro. Ed ho la sensazione di avere conversato con loro il giorno avanti. Sento ancora il calore delle loro mani tese.
1983 – William Golding – Irlanda
Incipit de “Il signore delle mosche”
Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola, che oragli penzolava da una mano, la camicia grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno a vapore. Procedeva a fatica fra le pianti rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco…
Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola, che oragli penzolava da una mano, la camicia grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno a vapore. Procedeva a fatica fra le pianti rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco…
1982 – Gabriel Garcia Marquez – Colombia
giovedì 25 marzo 2010
1981 – Elias Canetti – Bulgaria
Incipit di “Auto da fé”
- Che fai qui, bambino?
- Niente.
- E allora perché ci stai?
- Così…
- Sai leggere?
- Oh Sì!
- Quanti anni hai?
- Nove compiuti.
- Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?
- Un libro.
- Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?
- Sì.
- E perché non l’hai detto subito?
- Papà mi sgrida.
- Ah, ecco. Come si chiama tuo padre?
- Franz Metzger.
- Ti piacerebbe andare in un paese straniero?
- Sì. In India. Là ci sono le tigri.
- E poi dove?
- In Cina. C’è un’enorme muraglia.
- Ti piacerebbe scavalcarla, vero?
- È troppo alta e troppo grande. Nessuno può scavalcarla. Proprio per questo l’hanno costruita.
- Che fai qui, bambino?
- Niente.
- E allora perché ci stai?
- Così…
- Sai leggere?
- Oh Sì!
- Quanti anni hai?
- Nove compiuti.
- Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?
- Un libro.
- Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?
- Sì.
- E perché non l’hai detto subito?
- Papà mi sgrida.
- Ah, ecco. Come si chiama tuo padre?
- Franz Metzger.
- Ti piacerebbe andare in un paese straniero?
- Sì. In India. Là ci sono le tigri.
- E poi dove?
- In Cina. C’è un’enorme muraglia.
- Ti piacerebbe scavalcarla, vero?
- È troppo alta e troppo grande. Nessuno può scavalcarla. Proprio per questo l’hanno costruita.
1980 - Czeslaw Milosz – Lituania
Incipit de “La mia Europa”
Per secoli e secoli, quando sulle rive del Mediterraneo nascevano e si sgretolavano i regni e innumerevoli generazioni si tramandavano raffinati peccati e divertimenti, il mio paese natale era una foresta vergine, visitato lungo le coste soltanto da navi vichinghe. Esso era situato fuori dalle carte geografiche e apparteneva al fiabesco.
Per secoli e secoli, quando sulle rive del Mediterraneo nascevano e si sgretolavano i regni e innumerevoli generazioni si tramandavano raffinati peccati e divertimenti, il mio paese natale era una foresta vergine, visitato lungo le coste soltanto da navi vichinghe. Esso era situato fuori dalle carte geografiche e apparteneva al fiabesco.
1979 – Odisseo Elytis – Grecia
La bella nel giardino
Hai destato la goccia del giardino
All’inizio del canto degli alberi
Oh quanto sei bella
Con i tuoi giocondi capelli sciolti
E con la fronte aperta che t’accompagna
Perché io ti senta vivere e attraversar la strada!
Oh quanto sei bella
In corsa con la peluria dell’allodola
Intorno alla rosa canina che soffia a te
Come soffia il sospiro sulla piuma
Con un grande sole nei capelli
E con un’ape nello splendore della tua danza
Oh quanto sei bella
Con la nuova terra che a te duole
Dalla radice fino alla cima delle ombre
Tre le reti degli eucalipti
Con una metà del cielo nei tuoi occhi
E l’altra negli occhi di chi ami
Oh quanto sei bella
Quando svegli la girandola dei venti
E chini il tuo nido verso sinistra
Perché tanto amore non sia sprecato
Perché non abbia a lamentarsi neanche un’ombra
Alla farfalla greca che tu hai acceso
In alto con la tua beatitudine mattutina
Colma del prato al sole che si leva
Colma di uccelli mai prima sentiti
Oh quanto sei bella
Mentre lasci cadere la goccia del giorno
All’inizio del canto degli alberi.
Hai destato la goccia del giardino
All’inizio del canto degli alberi
Oh quanto sei bella
Con i tuoi giocondi capelli sciolti
E con la fronte aperta che t’accompagna
Perché io ti senta vivere e attraversar la strada!
Oh quanto sei bella
In corsa con la peluria dell’allodola
Intorno alla rosa canina che soffia a te
Come soffia il sospiro sulla piuma
Con un grande sole nei capelli
E con un’ape nello splendore della tua danza
Oh quanto sei bella
Con la nuova terra che a te duole
Dalla radice fino alla cima delle ombre
Tre le reti degli eucalipti
Con una metà del cielo nei tuoi occhi
E l’altra negli occhi di chi ami
Oh quanto sei bella
Quando svegli la girandola dei venti
E chini il tuo nido verso sinistra
Perché tanto amore non sia sprecato
Perché non abbia a lamentarsi neanche un’ombra
Alla farfalla greca che tu hai acceso
In alto con la tua beatitudine mattutina
Colma del prato al sole che si leva
Colma di uccelli mai prima sentiti
Oh quanto sei bella
Mentre lasci cadere la goccia del giorno
All’inizio del canto degli alberi.
1978 – Isaac Singer – Polonia
Incipit da “Gimpel l’Idiota”
Sono Gimpel l’Idiota, ma non credo di essere stupido. Anzi. Però i compaesani mi chiamano così. Mi diedero questo nomignolo quando andavo ancora a scuola. Di nomignoli ne avevo in tutto sette: imbecille, somaro, testa di rapa, tonto, allocco, sciocco e idiota. Fu quest’ultimo a restarmi appiccicato. In che consisteva la mia idiozia? Mi lasciavo turlupinare facilmente.
Sono Gimpel l’Idiota, ma non credo di essere stupido. Anzi. Però i compaesani mi chiamano così. Mi diedero questo nomignolo quando andavo ancora a scuola. Di nomignoli ne avevo in tutto sette: imbecille, somaro, testa di rapa, tonto, allocco, sciocco e idiota. Fu quest’ultimo a restarmi appiccicato. In che consisteva la mia idiozia? Mi lasciavo turlupinare facilmente.
1977 – Vincente Aleixandre – Spagna
Toro
Quella menzogna o stirpe.
Qui, mastini, subito; colomba, vola; salta, toro,
toro di luna e miele che non si stacca.
Qui, subito; fuggita, fuggite; solo voglio,
solo voglio i margini della lotta.
Oh tu, toro bellissimo, pelle sorpresa,
cieca soavità come un mare introverso,
quiete, carezza, toro, toro di cento poteri,
dinanzi ad un bosco fermo di spavento al limite.
Toro o mondo che non,
che non muggisce. Silenzio;
ampiezza di quest’ora. Corno o cielo sontuoso,
toro nero che tollera carezza, seta, mano.
Tenerezza delicata su una pelle di mare,
mare brillante e caldo, anca possente e dolce,
abbandono stupefacente della mole che esaurisce
le sue forse quasi cosmiche come latte di stelle.
Mano immensa che copre celeste toro in terra.
Quella menzogna o stirpe.
Qui, mastini, subito; colomba, vola; salta, toro,
toro di luna e miele che non si stacca.
Qui, subito; fuggita, fuggite; solo voglio,
solo voglio i margini della lotta.
Oh tu, toro bellissimo, pelle sorpresa,
cieca soavità come un mare introverso,
quiete, carezza, toro, toro di cento poteri,
dinanzi ad un bosco fermo di spavento al limite.
Toro o mondo che non,
che non muggisce. Silenzio;
ampiezza di quest’ora. Corno o cielo sontuoso,
toro nero che tollera carezza, seta, mano.
Tenerezza delicata su una pelle di mare,
mare brillante e caldo, anca possente e dolce,
abbandono stupefacente della mole che esaurisce
le sue forse quasi cosmiche come latte di stelle.
Mano immensa che copre celeste toro in terra.
1976 – Saul Bellow – Canada
Incipit di “Herzog”
Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava fosse toccato, e per qualche tempo persino lui aveva dubitato di esserci tutto. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d’essere stregato, e scriveva lettere alla gente più impensata. Era talmente infatuato da quella corrispondenza, che dalla fine di giugno, dovunque andasse, si trascinava dietro una valigia piena di carte. Se l’era portata, quella valigia, da New York a Martha’s Vineyard. Ma da Martha’s Vineyard era ritornato subito; due giorni dopo aveva preso l’aereo per Chicago, e da Chicago era filato in un paesino del Massachusetts occidentale. Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente, ai giornali, agli uomini pubblici, ad amici e parenti e finì per scrivere anche ai morti, prima ai suoi morti e poi ai morti famosi.
Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava fosse toccato, e per qualche tempo persino lui aveva dubitato di esserci tutto. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d’essere stregato, e scriveva lettere alla gente più impensata. Era talmente infatuato da quella corrispondenza, che dalla fine di giugno, dovunque andasse, si trascinava dietro una valigia piena di carte. Se l’era portata, quella valigia, da New York a Martha’s Vineyard. Ma da Martha’s Vineyard era ritornato subito; due giorni dopo aveva preso l’aereo per Chicago, e da Chicago era filato in un paesino del Massachusetts occidentale. Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente, ai giornali, agli uomini pubblici, ad amici e parenti e finì per scrivere anche ai morti, prima ai suoi morti e poi ai morti famosi.
1975 – Eugenio Montale – Italia
1974 - Eyvind Johnson - Svezia
Tratto da “Sogni di rose e di fuoco”
Ritratto di un personaggio secondario nato nel 1592
Daniel dromi, che era assessore e che a volte veniva chiamato consigliere, conseiller, del baglivo, cioè del governatore del distretto e del più alto funzionario civile della città, il signor de Cerisay, pronunciò una volta alcune parole che non sono le più sciocche che siano passate alla storia. Le parole, sui cui ritornerò in seguito, consistono in una critica severa e ardita, date le circostanze, al modo di trattare la lingua latina da parte di un potere oscuro. Molto si rise, e a ragione, sull’espressione adoperata da Drouin in quell’occasione – era il 24 novembre 1632 e l’eco della sua osservazione spiritosa ed amara è giunta fino a noi attraverso i documenti.
Ritratto di un personaggio secondario nato nel 1592
Daniel dromi, che era assessore e che a volte veniva chiamato consigliere, conseiller, del baglivo, cioè del governatore del distretto e del più alto funzionario civile della città, il signor de Cerisay, pronunciò una volta alcune parole che non sono le più sciocche che siano passate alla storia. Le parole, sui cui ritornerò in seguito, consistono in una critica severa e ardita, date le circostanze, al modo di trattare la lingua latina da parte di un potere oscuro. Molto si rise, e a ragione, sull’espressione adoperata da Drouin in quell’occasione – era il 24 novembre 1632 e l’eco della sua osservazione spiritosa ed amara è giunta fino a noi attraverso i documenti.
1974 - Harry Martinson - Svezia
Tratto da de “La strada per Klockrike”
Gli spagnoli sigarai
La porta della scala che conduceva al reparto sigarette si aprì e Cagliostro esce.
Era il rivale del sigaraio Bolle e passò dal reparto sigari soltanto per far vedere che era stato su da Dolly.
Salutò con cortesia ostentata Bolle, passando davanti al banco dei sigari di costui. Bolle rispose al saluto allo stesso modo. Da sigaraio spagnolo, estremamente cortese.
Nella loro esagerata cortesia. Si nascondeva tutto l’odio reciproco, un odio ben pettinato, facile all’inchino, con la brillantina nei capelli.
Gli spagnoli sigarai
La porta della scala che conduceva al reparto sigarette si aprì e Cagliostro esce.
Era il rivale del sigaraio Bolle e passò dal reparto sigari soltanto per far vedere che era stato su da Dolly.
Salutò con cortesia ostentata Bolle, passando davanti al banco dei sigari di costui. Bolle rispose al saluto allo stesso modo. Da sigaraio spagnolo, estremamente cortese.
Nella loro esagerata cortesia. Si nascondeva tutto l’odio reciproco, un odio ben pettinato, facile all’inchino, con la brillantina nei capelli.
1973 – Patrick White – Australia
Incipit de “L’esploratore”
- Signorina, c’è un uomo che chiede di suo zio – disse Rosa.
e rimase lì ansante.
- Che uomo? – chiese la giovane impegnata in quel momento da un ricamo complicato, che la costringeva, per vedere meglio, a tenere il telaino alzato verso la luce. – O è forse un signore?
- Io non lo so – rispose la domestica. – È una specie di forestiero.
Non si sa cosa avesse reso quella donna così opprimente. Le sue grosse poppe si muovevano monotone mentre parlava, o, se stava quieta, il peso dei suoi silenzi grava sugli estranei. Se le persone più sensibili tra quelle che serviva, o alle quali si rivolgeva, si astenevano dal guardarla, era perché il suo modo di fare sembrava un’accusa alla coscienza; ma forse era solo, più semplicemente, perché erano imbarazzate dal suo labbro leporino.
- Signorina, c’è un uomo che chiede di suo zio – disse Rosa.
e rimase lì ansante.
- Che uomo? – chiese la giovane impegnata in quel momento da un ricamo complicato, che la costringeva, per vedere meglio, a tenere il telaino alzato verso la luce. – O è forse un signore?
- Io non lo so – rispose la domestica. – È una specie di forestiero.
Non si sa cosa avesse reso quella donna così opprimente. Le sue grosse poppe si muovevano monotone mentre parlava, o, se stava quieta, il peso dei suoi silenzi grava sugli estranei. Se le persone più sensibili tra quelle che serviva, o alle quali si rivolgeva, si astenevano dal guardarla, era perché il suo modo di fare sembrava un’accusa alla coscienza; ma forse era solo, più semplicemente, perché erano imbarazzate dal suo labbro leporino.
1972 - Heinrich Boll – Germania
Incipit di “Opinioni di un clown”
Era già buio quando arrivai a Bonn. Feci uno sforzo per non dare al mio arrivo quel ritmo di automaticità che si è venuto a creare in cinque anni di continuo viaggiare: scendere le scale della stazione, risalire altre scale, deporre la borsa da viaggio, levare il biglietto dalla tasca del soprabito, consegnare il biglietto, dirigersi verso l’edicola dei giornali, comperare le edizioni della sera, uscire, fare cenno a un tassì. Per cinque anni ogni giorno sono partito da qualche luogo e sono arrivato in qualche luogo, la mattina ho disceso e salito scale di stazioni, il pomeriggio ho disceso e risalito scale di stazioni, ho chiamato un tassì, ho cercato la moneta nella tasca della giacca per pagare la corsa, ho comprato giornali della sera alle edicole e, in un angolo riposto del mio io, ho gustato la scioltezza perfettamente studiata di questo automatismo.
Era già buio quando arrivai a Bonn. Feci uno sforzo per non dare al mio arrivo quel ritmo di automaticità che si è venuto a creare in cinque anni di continuo viaggiare: scendere le scale della stazione, risalire altre scale, deporre la borsa da viaggio, levare il biglietto dalla tasca del soprabito, consegnare il biglietto, dirigersi verso l’edicola dei giornali, comperare le edizioni della sera, uscire, fare cenno a un tassì. Per cinque anni ogni giorno sono partito da qualche luogo e sono arrivato in qualche luogo, la mattina ho disceso e salito scale di stazioni, il pomeriggio ho disceso e risalito scale di stazioni, ho chiamato un tassì, ho cercato la moneta nella tasca della giacca per pagare la corsa, ho comprato giornali della sera alle edicole e, in un angolo riposto del mio io, ho gustato la scioltezza perfettamente studiata di questo automatismo.
1980 – Pablo Neruda – Cile
Tratto da “Cento sonetti d’amore”
Nuda sei semplice
Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
ha linee di luna, strade di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.
Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l’estate in una chiesa d’oro.
Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t’addentri nel sotterraneo del mondo
come in una lunga galleria di vestiti e di lavoro:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.
Nuda sei semplice
Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
ha linee di luna, strade di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.
Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l’estate in una chiesa d’oro.
Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t’addentri nel sotterraneo del mondo
come in una lunga galleria di vestiti e di lavoro:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.
1970 – Alexandr Solzenicyn – Russia
Incipit di “Divisione Cancro”
La “divisione cancro” era contrassegnata dal numero tredici. Pavel Nicolàevic Rusanov non era mai stato superstizioso, non era neanche pensabile lo fosse; tuttavia ebbe un tuffo al cuore quando si vide scrivere sul documento di ricovero “Divisione 13”. Possibile non avessero avuto il buon gusto di segnare col tredici il padiglione delle protesi, magari, o quello delle malattia intestinali?
Ma, in tutta la repubblica, quello era il solo ospedale dove lo si potesse curare.
La “divisione cancro” era contrassegnata dal numero tredici. Pavel Nicolàevic Rusanov non era mai stato superstizioso, non era neanche pensabile lo fosse; tuttavia ebbe un tuffo al cuore quando si vide scrivere sul documento di ricovero “Divisione 13”. Possibile non avessero avuto il buon gusto di segnare col tredici il padiglione delle protesi, magari, o quello delle malattia intestinali?
Ma, in tutta la repubblica, quello era il solo ospedale dove lo si potesse curare.
1969 – Samuel Beckett – Irlanda
1969 – Samuel Beckett – Irlanda
Incipit di “Molloy”
Sono nella stanza di mia madre. Sono proprio io a viverci adesso. Non so come ci sono arrivato. Forse in un’ambulanza, certamente un mezzo qualsiasi. Mi hanno aiutato. Da solo non ci sarei arrivato. Quell’uomo che viene ogni settimana, forse son qua proprio per merito suo. Lui dice di no. Mi dà un po’ di soldi e si porta via i fogli. Tanti fogli, tanti soldi. Sì, adesso lavoro, un po’ come una volta, soltanto che non so più lavorare. Ciò non ha importanza, sembra. Quanto a me ora vorrei parlare delle cose che mi restano, congedarmi, finir di morire.
Incipit di “Molloy”
Sono nella stanza di mia madre. Sono proprio io a viverci adesso. Non so come ci sono arrivato. Forse in un’ambulanza, certamente un mezzo qualsiasi. Mi hanno aiutato. Da solo non ci sarei arrivato. Quell’uomo che viene ogni settimana, forse son qua proprio per merito suo. Lui dice di no. Mi dà un po’ di soldi e si porta via i fogli. Tanti fogli, tanti soldi. Sì, adesso lavoro, un po’ come una volta, soltanto che non so più lavorare. Ciò non ha importanza, sembra. Quanto a me ora vorrei parlare delle cose che mi restano, congedarmi, finir di morire.
1968 – Yasunari Kawabata – Giappone
1967 – Miguel Angel Asturias – Guatemala
Tratto da “Leggende del Guatemala”
Guatemala
La carretta arriva al villaggio, un giro di ruota dopo l’altro, giorno dopo giorno. Alla fermata, dove finiscono la via e la strada, c’è la prima bottega. I proprietari sono vecchi, hanno il gozzo, hanno visto cose spaventose: fantasmi, spiriti vaganti, raccontano miracoli e chiudono la porta quando passano gli zingari, gente che ruba i bambini, mangia carne di cavallo, parla con il diavolo e fugge davanti a Dio.
1966 – Nelly Sachs (Germania)
Tratto da “Apriti notte”
Bianca nel parco dell’ospedale
Nella neve
la donna passa
tiene dietro la schiena
contratta con presa sbagliata
in modo furtivo
rami staccati con gemme
ancora coperti di notte
Ma lei immobile nella follia
nella neve
guardando intorno a sé e sbarrati
gli occhi dove
da ogni lato il nulla sopravviene –
Ma furtiva la lontananza
si è nella sua mano
messa in moto –
II
Il silenzio imbevuto di tante ferite
religione di oranti che si sono dipartiti
vive ancora il martirio
sempre nuovo come primavera -
1966 – Shmuel Yosef Agnon - Israele
Incipit di “Un cane randagio” tratto dal romanzo “Il tempo di prima”
Un ricco possidente di Buchara era venuto dalla sua città a Gerusalemme, per pregare davanti al Signore nei luoghi santi e prostrarsi sulle tombe dei Padri e delle Madri d’Israele prediletti dell’Altissimo. Giunta l’ora di tornare al suo paese, gli doleva il cuore a lasciare Gerusalemme, città santa, che uscire è come precipitare nella Geenna.
giovedì 18 marzo 2010
1965 – Michail Sholokhov– URRS
Incipit de “Il placido Don”
La casa dei Melechov si trova proprio al limite del villaggio. Il portone del cortile dov’è il bestiame guarda a tramontana verso il Don. Un ripido pendio di una ventina di metri, tra macigni calcarei chiazzati di muschio verdastro – ed ecco la riva: un largo strato di conchigliette color madreperla, una grigia striscia sinuosa di ghiaia, continuamente baciata dalle onde, e più oltre la rapida corrente in mezzo al Don che s’increspa sotto il vento con riflessi d’acciaio.
La casa dei Melechov si trova proprio al limite del villaggio. Il portone del cortile dov’è il bestiame guarda a tramontana verso il Don. Un ripido pendio di una ventina di metri, tra macigni calcarei chiazzati di muschio verdastro – ed ecco la riva: un largo strato di conchigliette color madreperla, una grigia striscia sinuosa di ghiaia, continuamente baciata dalle onde, e più oltre la rapida corrente in mezzo al Don che s’increspa sotto il vento con riflessi d’acciaio.
1963 – Giorgio Seferis – Grecia
1962 – John Steinbeck – USA
Incipit di “Uomini e topi”
Poche miglia a sud di Soledad, il Salinas capita sotto le falde dei colli, dove scorre verde e profondo. L’acqua è anche tiepida, perché è sgusciata sfavillando sulle sabbie gialle nel sole, prima di giungere alla stretta pozza. Su una riva del fiume i pendii dorati del contrafforte salgono dolcemente ai monti Gabilan forti e rocciosi; ma a valle l’acqua è orlata di piante: salici verdi e novelli ad ogni primavera, ingombre le forche dei rami bassi dal tritume della piena invernale, e sicomori dalle candide e screziate braccia penzolanti, e dalle fronde arcuate sulla corrente. Sulla riva sabbiosa sotto gli alberi giacciono le foglie dissecate in strato così alto, che la lucertola fa un grande trapestio correndovi in mezzo. I conigli escono dalla macchia a sedersi sulla sabbia nella sera, e le radure acquitrinose sono disseminate delle tracce notturne dei tassi, delle larghe zampate dei cani dei ranches e delle orme a cuneo dei daini che vengono a bere all’ombra.
Poche miglia a sud di Soledad, il Salinas capita sotto le falde dei colli, dove scorre verde e profondo. L’acqua è anche tiepida, perché è sgusciata sfavillando sulle sabbie gialle nel sole, prima di giungere alla stretta pozza. Su una riva del fiume i pendii dorati del contrafforte salgono dolcemente ai monti Gabilan forti e rocciosi; ma a valle l’acqua è orlata di piante: salici verdi e novelli ad ogni primavera, ingombre le forche dei rami bassi dal tritume della piena invernale, e sicomori dalle candide e screziate braccia penzolanti, e dalle fronde arcuate sulla corrente. Sulla riva sabbiosa sotto gli alberi giacciono le foglie dissecate in strato così alto, che la lucertola fa un grande trapestio correndovi in mezzo. I conigli escono dalla macchia a sedersi sulla sabbia nella sera, e le radure acquitrinose sono disseminate delle tracce notturne dei tassi, delle larghe zampate dei cani dei ranches e delle orme a cuneo dei daini che vengono a bere all’ombra.
mercoledì 17 marzo 2010
1961 – Ivo Andric – Bosnia
Incipit di “Il ponte sulla Drina”
Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s’apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi canon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde ai allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambi le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Visegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un’improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e ravvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s’apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi canon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde ai allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambi le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Visegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un’improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e ravvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
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